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Ritratto di famiglia in un esterno

Scritto da Mariella Piccione. Posted in Famiglia e Società

E’ recentemente uscito, edito da Laterza, un interessante rapporto-proposta a cura del Comitato per il progetto culturale della CEI (venticinque nomi illustri di studiosi), dal titolo “Il cambiamento demografico in Italia”. Lo scopo non è solo fotografico, ma anche propositivo.

Come siamo? E come stiamo? E infine: prevedibilmente, come saremo?

Non si tratta di pure curiosità. Tanto meno di domande inutili. Su queste realtà noi possiamo influire molto più di quanto ci sembra, se ne diventiamo consapevoli.

LO SCENARIO GENERALE

Alcuni cambiamenti dello scenario italiano sono noti non solo per la diffusione che ne danno i media, ma anche per il piccolo panorama che ognuno di noi ha sotto gli occhi.

Si parla di ‘malessere familiare’: i matrimoni non durano, il tessuto familiare si disgrega.

Si parla di ‘culle vuote’, di ‘inverno demografico’: nascono sempre meno bambini.

Si parla di ‘invecchiamento della società’: ci sono sempre più anziani.

Si parla di ‘pari opportunità’ tra uomo e donna: lei non è più ‘l’angelo del focolare’ e lui è alla ricerca di un nuovo ruolo.

Le cifre confermano queste impressioni. Dagli anni Settanta ad oggi c’è stata una frenata radicale nella crescita demografica: sei milioni di giovani in meno, benché la popolazione sia passata dai 54 ai 60 milioni; un raddoppio dei over 65enni (da 6 milioni a oltre 12), mentre gli ultra 85enni si sono più che quadruplicati. Questi vistosi cambiamenti si accompagnano a molti altri.

COME CAMBIA LA FAMIGLIA

Possiamo individuare un ‘modello settentrionale’ diverso da quello del Sud e delle isole, in cui molti giovani (tra il 25 e il 45%) mettono in atto una convivenza pre-matrimoniale  o comunque escono dalla famiglia d’origine anche senza avere un partner; si sposano meno e più avanti nell’età, più frequentemente col rito civile, vanno più facilmente incontro a  separazione e divorzio e si riciclano sul ‘mercato matrimoniale’ sui 50 anni. Il modello meridionale è più tradizionale rispetto a tutte quante queste variabili.

In generale, comunque, ci si sposa sempre meno: dagli oltre 400 mila matrimoni del 1971 si è scesi a meno di 220 mila nel 2010. Più di un matrimonio su tre (il 37%) è celebrato col rito civile, ma al Nord si arriva quasi al 50%, contro il 20% (cioè uno su cinque) di quindici anni fa.

In aumento i matrimoni misti (oltre 21 mila nel 2009) e quelli tra stranieri (circa 11mila).

Dal 95 ad oggi le separazioni sono, in percentuale, più che raddoppiate (da 80 a 180 ogni mille matrimoni). Il rischio di separazione dei matrimoni celebrati nel 2008 è stato calcolato al 28,6%: come dire che oltre un matrimonio su quattro è – statisticamente – destinato al fallimento.

Nel 2010 il 15% degli sposi era alle seconde nozze. In espansione la realtà delle famiglie ‘ricostituite’, con o senza formalizzazione di un nuovo matrimonio: sono il 5,6%  del totale delle coppie (830mila nuclei). Il 60% di esse ha figli, per due terzi nati dalla nuova unione.

E’ aumentato il numero delle famiglie (circa 4 milioni in più), ma di queste il 55% è costituito da una o due persone (single, coppie senza figli o genitore con un figlio). Le famiglie con 5 o più membri sono al di sotto del 6%, contro l’11% del 1988.

Si sta poi allargando un tipo di famiglia finora sconosciuto da noi  e più presente nel Nord Europa, la LAT (Living Apart Together): coppie che condividono una relazione affettiva ma vivono in case separate. In Italia sarebbero più di 600mila, concentrati nella fascia di età tra i 45 e i 70 anni: “un piccolo esercito di coppie di separati, divorziati o vedovi, con anziani da accudire o figli a cui non si vuole imporre il proprio partner”.

Anche se è ormai largamente tramontato il modello familiare in cui i giovani sposi convivono con i genitori, il legame con le famiglie d’origine è forte e si traduce in frequentazioni assidue e relazioni continue di reciproco aiuto, spesso favorite dalla vicinanza delle abitazioni tra genitori e figli sposati.

VECCHI E GIOVANI

Siamo diventati sempre più longevi e questo da una parte non può che farci piacere. Gli uomini oggi 65enni hanno una speranza di vita di altri 17,9 anni (le donne di 21,6) e gli ottantenni di altri 8 (le donne di quasi 10). I centenari sono circa 15mila, mentre 10 anni fa erano 6mila.

Ma attenzione: se parliamo di anni ‘in buona salute’, la speranza scende a 62,8 per gli uomini e persino più in basso per le donne (61,9). In condizioni di completa autonomia giungono agli 80 anni il 40% degli uomini e solo il 25% delle donne. Dunque la longevità da sola non è un dato così consolante. Questi traguardi si spostano sempre più in avanti e sono sicuramente frutto non solo del miglioramento generale del tenore di vita, ma anche dei progressi della medicina. Questo però non è senza conseguenze rispetto alla spesa sanitaria che già sta crescendo in  misura notevole ed ancor più in prospettiva.

Se non sempre è bello invecchiare a causa della cattiva salute, è anche lecito chiedersi: qual è il valore oggi attribuito all’anziano? Mentre un tempo era oggetto di stima e venerazione in quanto portatore di conoscenze e di saggezza, punto di riferimento umano e spirituale oltre che professionale, nella società tecnologica la squalifica dell’anziano in quanto non più competente si estende a tutta quanta la sua persona.

Del resto la forza dei numeri appare predittiva di un crescente squilibrio tra giovani e anziani che non può non preoccuparci. Già adesso ci sono in Italia più ultra 65enni che giovani sotto i 20 anni. A breve – tra una quindicina d’anni – gli ultra 80enni sorpasseranno i bambini al di sotto dei 10 anni. Lo spettro del ‘vecchio abbandonato’ minaccia di sostituirsi al triste ricordo del ‘bimbo abbandonato’ alla ruota dei conventi. E non per cattiveria o bieco egoismo: nel 2040 una persona anziana su tre dovrà prendersi cura di una persona vecchia.

E i giovani? Nell’Unione Europea abbiamo lo squalificante record della più bassa percentuale di giovani (il 21 % della popolazione totale), con livelli fra i più bassi di istruzione e occupazione, e fra i più alti rispetto alla permanenza prolungata in famiglia.

Tra i 30 e i 34 anni sta ancora in famiglia quasi il 40% dei maschi e il 22% delle ragazze e la metà di essi dichiara di farlo perché sta bene così, ha libertà; più bassa la percentuale di coloro che accusano difficoltà economiche.

Questo della ‘famiglia lunga’ è un fenomeno complesso. Certamente evidenzia un valore forte attribuito ai legami familiari. Certamente la scarsa capacità di attrazione e di assorbimento del mercato del lavoro ha il suo peso e la diffusa sfiducia nel contesto socio-economico genera sia giovani poco responsabili che genitori poco ‘propulsivi’. Tuttavia il fatto che il 21% dei giovani tra i 15 e i 29 anni non lavori né studi suscita perplessità e allarme.

L’INVISIBILE POPOLO DEI NON NATI

Nel 2009 sono nati 569mila bambini, ma 117mila sono stati abortiti. Cioè uno su cinque. Fa ancora più impressione sapere che una donna su tre abortisce, e di queste il 27% più volte. Dal 1978 ci sono stati 2 milioni e mezzo di aborti. Immaginando che circa la metà fosse costituito da femminucce, quindi future madri, il numero dei figli che manca all’appello è molto elevato.

Può essere di modesta consolazione il fatto che questi numeri sono stabili dal 90 ad oggi (non c’è aumento), e che nella graduatoria europea siamo ai livelli più bassi. Sfugge però alla statistica il numero dei ‘cripto-aborti’ (pillola del giorno dopo, RU486).

Certo è che di questo fenomeno nel suo complesso si parla pochissimo e in modo molto incompleto, più che altro nei termini di ‘libertà’ e ‘autonomia decisionale’ della donna. Non ha rilevanza pubblica, e meno ancora eco mediatica, la sofferenza emotiva e psicologica della donna, che c’è sempre, la sua solitudine, lo strascico del vissuto di morte che si porta dentro negli anni. Ma l’ottica prevalente e quasi esclusiva della legge è quella di ‘regolamentare’, non tanto di prevenire.

E dire che le donne desiderano ancora avere figli!

La percentuale di donne italiane che non vogliono figli è la più bassa al mondo (il 3%). E’ vero che ben il 56% delle donne tra i 25 e i 39 anni è senza figli (contro il 24% delle francesi e delle tedesche e il 30% delle svedesi), ma il 65% di queste intende averne. Se il tasso di fecondità è sceso intorno a 1,4 figli per donna (e le immigrate si stanno rapidamente allineando), il numero medio di figli desiderato dalle donne in età fertile è 2,2,  persino un po’ al di sopra del ‘livello di sotituzione’ che dovrebbe essere circa 2 per garantire il saldo naturale tra nati e morti.

I PERSUASORI OCCULTI

Perché accade questo? Perché le donne italiane (e, si presume, gli uomini: ma statistiche a questo riguardo non compaiono nello studio) hanno sempre meno figli? Sembra scontato ricordare la crisi economica, l’incertezza del lavoro, il fatto che la donna lavori fuori casa. Tutto vero. Ma a ben vedere esiste un passaparola silenzioso, una congiura anche mediatica che crea un clima di ostilità intorno al bambino, visto come una seccatura o un ostacolo alla libertà e alla tranquillità degli adulti.

Si vanno diffondendo i locali child free, oppure l’offerta di luoghi di svago in cui i genitori possono liberarsi dei figli, opportunamente animati e custoditi. L’idea del bambino rompiscatole va a braccetto con quella del bambino idolatrato: sono entrambe visioni distorte dall’individualismo dell’adulto che considera il figlio un valore (o un inciampo) rispetto a sé, e non in quanto lui stesso persona. Idem dicasi per la caricatura di piccolo adulto ‘fashion’ che il mercato propone, non diversamente da certi programmi tv (“Io canto”).

Programmi televisivi e pubblicità offrono con insistenza modelli che portano lontano dalla realtà italiana. La donna è in carriera, se fa la casalinga lava i pavimenti col tacco 12 oppure è disperata, seppure in inglese. L’uomo è più variegato: o è macho, o è narciso, o è mammo (per raggiungere tutti i tipi di consumatori). La famiglia della fiction è alquanto improbabile: che sia ricostituita, formata da coppie miste o da omosessuali, enfatizza realtà ancora poco presenti in Italia. Nella cronaca trova posto o la famiglia super-famosa, dei divi o dei reali, o quella vittima di tragedie. Nei talk show dove sono esibite situazioni privatissime essa appare luogo di relazioni difficili, devastate.

Il clima generale che esce da questi persuasivi bombardamenti è di sfiducia, di ripiegamento nell’oggi, di chiusura rispetto al futuro.

LA VARIABILE ‘TEMPO’

Ma fare famiglia è un progetto che incomincia oggi e si compie nel futuro.

Nella società consumista vali in quanto possiedi. Oggi, nell’immediato, per avere identità, autostima, valore e riconoscimento sociale. Compri oggi e paghi tra sei mesi, l’anno prossimo, in comode rate; purché quell’oggetto sia subito tuo. Anche il successo non dipende dalla fatica, dall’abilità, dall’impegno: c’è il gratta e vinci, il gioco a premi (e che premi), il reality in cui diventa famoso un personaggio che non sa fare nulla di speciale, ma semplicemente riesce più simpatico di altri e non si sa neppure bene perché.

E il futuro appare minacciosamente negativo. Prevalgono la precarietà, l’insicurezza, l’impotenza nei confronti di situazioni sovrastanti come l’inquinamento, la globalizzazione, i disastri ambientali. L’utilitarismo è una difesa, anche nei legami, per cui si fuggono quelli a lungo termine.

Nella società americana, un passo avanti a noi ma non sempre in modo positivo, sta nascendo la coppia “no kids” (niente bambini) che fa il paio con la coppia DINK (Dual Income, No Kids: due redditi, niente bambini). Ci separa l’Atlantico, ma nel web siamo terribilmente vicini. Se il modello americano ci raggiungeva in cinquant’anni e poi in trenta, ora i tempi si sono sensibilmente accorciati.

COSA PUO’ FARE LO STATO?

Fare famiglia, generare figli sembrano scelte solo private, ma non è così.

Oltre ai condizionamenti socio culturali, sono in gioco altre relazioni meno evidenti.

Lo studio mette ben in chiaro il rapporto tra tasso di disoccupazione giovanile e fecondità. Sebbene con qualche eccezione, le statistiche a livello mondiale rivelano che c’è stretta relazione tra spesa pubblica per la famiglia e fecondità. In Italia negli ultimi decenni le spese per la famiglia e la maternità sono diminuite e sono state dirottate sulle pensioni.

Gli aiuti sporadici e i benefici fiscali sono ancora troppo poco. Gli assegni familiari sono irrisori.

Si invoca l’introduzione del ‘quoziente familiare’, in base al quale la tassazione tiene conto non solo del reddito, ma anche del carico familiare: attualmente chi ha più figli è penalizzato.

Serve poi una politica di conciliazione famiglia-lavoro che non miri solo all’organizzazione e alle pari opportunità, che punti non solo alla ‘questione femminile’ ma alla ‘questione familiare’ nel suo insieme, che valorizzi la donna e l’uomo favorendo “condivisone, riconoscimento, reciprocità che fa tesoro delle specificità di ciascuno”. Una rivoluzione culturale prima ancora che politica, a cui ognuno può dare il suo contributo.

L’aiuto può poi venire dall’erogazione di servizi, come i nidi (e i pre e post nido), la figura dell’educatrice familiare di supporto alla famiglia anche solo in fasce orarie limitate. Utile potenziare i Consultori Familiari e i Centri per la Famiglia.

Non ultime le politiche abitative oltre, naturalmente, a quelle occupazionali.

Il nostro welfare “da riparativo e assistenziale deve diventare preventivo e abilitante”, riconoscendo alla famiglia la sua dignità e il suo valore di ‘capitale sociale’, restituendole fiducia in se stessa e nella sua capacità unica e insostituibile di generare vita, futuro e benessere.

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