Venerdì, 03 Maggio 2013 02:25

L’approdo all’impiego fisso

Scritto da Paola C.
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La benzina che alimenta le nostre energie è fornita dai riconoscimenti. Il campo lavorativo è un ambito molto importante in cui ci misuriamo quotidianamente, per molte ore, con le nostre capacità, con i fantasmi del passato o del presente, con i nostri miti, con i pregiudizi sociali, con tutti gli arcani dei tarocchi - perché ogni figura potrebbe trovare un’incarnazione in un ufficio... Infine, con la ruota della vita.

 

Nell’azienda commerciale da cui venni contattata per quello che sarebbe diventato il mio primo impiego fisso superai dapprima una lunga fase di selezione. Mi venne proposto un contratto che prevedeva ancora, inizialmente, un periodo di prova, con buone possibilità di conferma. Da tempo non ottenevo che mansioni temporanee e, tra le domande di lavoro inviate a tappeto nel corso di qualche mese per invertire tale tendenza, questo era uno dei pochi riscontri che ottenevo. Il caso voleva, oltretutto, che l’opportunità si stesse concretizzando a quindici minuti di distanza dalla mia nuova abitazione. Firmai il contratto propostomi senza indugi e feci bene: qualche anno dopo, con l’inizio della crisi economica, le tipologie di contratto per le assunzioni di personale relativamente giovane come me sarebbero state molto meno favorevoli e le aziende avrebbero diversificato le assunzioni attingendo al mare magnum di stagisti e apprendisti.

L’ambito commerciale mi era già famigliare, anche se ogni esperienza è a sé. Venivo accolta in un ambiente giovane, abbastanza internazionale e di livello culturale affine al mio, ma decisamente tecnico ed economico. L’ufficio cui ero stata destinata, pur operando già a livello mondiale, si era formato da poco. Era stato appena nominato il direttore – mio referente diretto - e nei piani di sviluppo degli anni a venire questa divisione aziendale avrebbe dovuto strutturarsi per far fronte ad un massiccio sviluppo del volume d’affari. I coetanei presenti nell’ufficio erano tutti più o meno desiderosi di fare carriera ed impegnarsi. Io ero innanzitutto desiderosa di ottenere un contratto di lavoro sicuro, per mettermi finalmente alle spalle la minaccia del precariato. Recentemente, avevo sfidato la sorte con scelte di coraggiosa autonomia dalla mia famiglia d’origine: ora attendevo di essere ripagata con un po’ di fortuna e di fiducia. Mi impegnai oltremodo, superai la prova e finalmente venni confermata a tempo indeterminato. Di lì a pochi anni, fra traslochi, passaggi di carriera del direttore e molti cambi organizzativi, l’ufficio sarebbe passato da meno di una decina di persone a venti, poi a trenta, poi a quaranta, con i fatturati che seguivano a ruota. Furono anni di immersione totale nel lavoro e di orari molto lunghi.

Si era supportati da alcune forti spinte motivazionali: la retribuzione mensile a sostegno delle spese per vivere autonomamente, innanzitutto, ma anche il lavoro di squadra, l’immagine collegata al prodotto trattato, una certa autonomia, il senso di appartenenza ad una causa comune e – che si volesse o meno – una forte dose di competizione. Per contro, si era esposti molte ore al giorno a situazioni di stress dovuto ad una mole eterogenea di lavoro, alle attese prestazionali in parte auto-imposte e in parte recepite dall’istituzione.
Con l’andar del tempo, percepii il rischio di chiudermi in un guscio, motivo per cui ad un certo punto cercai di uscire un po’ dal ruolo e di iniziare a far emergere la mia identità. Iniziai a voler conoscere maggiormente le altre realtà aziendali, chiesi di fare dei corsi che trovai molto interessanti, allargai i miei orizzonti e conobbi nuovi riferimenti. Fu allora che mi venne affidata una collaborazione per un settore trasversale, in aggiunta alle mie mansioni. In alcuni periodi superai le dodici ore lavorative giornaliere e mi trovai alle prese con responsabilità non commisurate. Capii che quel traguardo fittizio che funge da sfida e che viene utilizzato come leva motivazionale si sarebbe eternamente spostato, se da parte del singolo non fosse intervenuta una delimitazione. Ma quando siamo inseriti in certi ingranaggi organizzativi, tutto contribuisce a farci mettere, anche inconsapevolmente, la realizzazione lavorativa al centro della vita, per il fatto che ci viene concesso di brillare di luce riflessa.
Dopo un po’ ci si accorge di vivere per lavorare. I giorni si susseguono tutti identici, li si scambia uno con l’altro. Ci si trova alle nove di sera nei corridoi semideserti di un centro commerciale, l’unico posto dove rimediare ancora un acquisto compulsivo, con la sensazione che qualcosa non vada. Ecco che a distanza di qualche anno dall’inizio di quell’intensa esperienza professionale si affacciava alla mia mente la necessità di un bilancio sul dispendio delle mie energie vitali.

Nelle aziende è pieno di persone per cui il lavoro ha colmato grossi vuoti. Alcune sono persone sole: quanti i computer accesi sul gioco del solitario che ricordo di aver intravisto, le volte in cui anch’io ho fatto lo straordinario fino alle nove di sera! Alcune persone hanno famiglie che attendono a casa; altre hanno famigliari che non li attendono più, stufi di essere soppiantati dai soliti compagni di riunioni. Vivendo così si finisce per delegare “fette” della nostra esistenza (che, secondo le inclinazioni personali, possono essere la cura dei propri affetti, la ricerca di uno stile di vita più sostenibile o della spiritualità, la coltivazione di interessi, di una maggiore informazione sui temi che ci interessano, la possibilità di fare del volontariato...), rischiando di svegliarsi ad un’età in cui molte scelte non sono più possibili. Avendo indirizzato le proprie energie unicamente in campo professionale, c’è poi il rischio di incappare in una cocente delusione nel momento in cui le aspettative siano disattese: un cambio di management, l’inversione di tendenza negli investimenti, decisioni che non prevedono il nostro coinvolgimento sono situazioni molto ricorrenti, nel campo aziendale che è quello di mia maggior conoscenza, e trasversali ad ogni inquadramento. Sebbene per certi rischi ci si faccia ripagare, a mio modo di vedere ve ne sono di non quantificabili: la salute, la tranquillità nostra e dei famigliari, la serenità per concepire e accudire dei figli, solo per fare qualche esempio, non sono barattabili con soldi e benefit.
Il bagaglio di esperienze accumulate in questa circostanza ed altre passate, le situazioni osservate dall’esterno e la sensibilità personale mi portavano ad affermare che – fermi restando impegni contrattuali, professionalità e fiducia – meritava ripartire le proprie energie in base agli ambiti della vita, senza tralasciarne. Io avevo la fortuna di avere una famiglia d’origine unita e in buona salute, un legame sentimentale consolidato, molti interessi e curiosità verso impegni di diversa natura: ognuna di queste cose doveva avere il proprio spazio, perché stessi bene io e se ne arricchissero tutti attorno a me. Era questione di proteggere gli ambiti, ristabilendo un equilibrio che, nella foga della routine, avevo tralasciato. Presa coscienza di ciò, la strada era tracciata e sembrava più diretta verso la necessità d’indipendenza che verso la realizzazione di un ideale professionale come forse inculcatomi sin dai tempi degli studi.

Quello che mi ha permesso di attuare la scelta verso un equilibrio più adatto al mio benessere è stata la graduale negoziazione delle priorità e delle responsabilità. Ho dovuto scendere a compromessi, distinguendo i miei valori come indipendenti da quelli aziendali - in una parola espormi. La mia è stata in primis un’ammissione di umanità: con i responsabili e con molti colleghi, laddove vigeva una fredda professionalità, mi sono aperta al dialogo, lasciandomi conoscere, portando la relazione su un piano chiaro e diretto. È stato poi anche un lavoro “diplomatico” con alcune persone. Per negoziare ho dovuto rinunciare a compiacere gli altri ad ogni costo, riconoscendo e bilanciando capacità e limiti. Questa capacità (una questione di buon gusto in molti casi, in cui accaparrandosi incarichi si rischiano stalli, mal gestioni, figuracce) è un modello estinto fra i nostri imprenditori. Il downshifting, la scelta del basso profilo, implica riconoscersi utili ma non indispensabili, disponibili ma non acquistabili, rinunciare a compensi extra e riappropriarsi del proprio tempo. Nel mio caso si è trattato di cambiamenti piccoli, commisurati al mondo impiegatizio, ma significativi per il mio stile di vita. Penso sia importante mettersi nella posizione di potersi autodeterminare, sul lavoro, a partire da quando si ha un po’ di esperienza e di anzianità, sempre accettando la presa in carico soggettiva delle conseguenze - perché ogni scelta comporta delle conseguenze.
Certo, ogni scelta si attua anche grazie all’istituzione in cui si è inseriti, grazie ad una reciproca base di fiducia e di “compatibilità” che nel tempo si stabilisce. Sono certa che il mio personale caso è stato più attuabile grazie al fatto che io fossi donna, in un’organizzazione tutto sommato ancora tradizionalista. Personalmente infatti non mi riconoscevo nei modelli di donne ai posti di comando che avevo incontrato nelle società in cui avevo lavorato: donne “coi pantaloni”, agguerrite e carrieriste. In alcuni casi, per non rinunciare ai loro diritti di mogli e di madri, si proteggevano mandando avanti il collega maschio, che però in quei casi assumeva i connotati di una loro controfigura. Più coraggiose, più determinate, più competitive, più ambiziose dei loro pari maschili, queste donne non vedono l’ora di abbattere lo stereotipo maschile e sostituirsi ad esso, pensando di guadagnare valore rispetto alla tradizione. In sempre maggior numero, si ritrovano ad infoltire la categoria dei cosiddetti “manager a terra”: tenutari di molti benefit, ma in crisi di leadership e in difficoltà (qui, le donne più degli uomini) nel mantenere i piedi in molte scarpe.l approdo all impiego fisso

Come in tutti gli ambiti della vita, anche in campo lavorativo ci sono stadi di maturità personale. La maturazione della consapevolezza di chi vogliamo essere, di dove ci vediamo e ci sentiamo a nostro agio, non è da cercare tra le righe di un contratto o nei numeri di una busta paga – che pure sono prerogative indispensabili “a monte”, perché ci garantiscono la tranquillità di fare le nostre scelte. Per quanto riguarda me, la maturità lavorativa è scaturita dal discernimento dell’equilibrio sostenibile: dell’equilibrio delle energie tra questo ambito e gli altri.
È giusto soppesare tutti i riconoscimenti lavorativi che – in forma positiva, ma anche purtroppo negativa, economica e non – hanno un impatto sulla nostra persona oltre che sul nostro ruolo. Ma bisogna tenere altrettanto conto di quelli derivanti dagli altri ambiti della vita, per considerarci davvero completi come persone. Da qui, la necessità di conciliazione tra le esigenze lavorative e quelle della sfera privata, per cui la negoziazione diventa strumento fondamentale e presupposto imprescindibile per un’umanizzazione del lavoro.

Letto 94212 volte Ultima modifica il Mercoledì, 15 Gennaio 2014 16:59

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